Da, “IL TEMPO”, 23 giugno 1976
Marino Marini ha compiuto 75 anni. E’ nato infatti a Pistoia nel febbraio del 1901 da una famiglia della buona borghesia. Famosissime le sue sculture: cavalli, cavalieri, le Pomone.
Pittore e incisore, Marino (ormai è universalmente noto col suo primo nome) è considerato uno dei più grandi scultori del mondo. Vive per quattro mesi all’anno a Forte dei Marmi e Viareggio, per il resto dell’anno nella casa di Milano e in alcune altre residenze-studio in Svizzera (la moglie dell’artista, signora Marina, bionda, molto bella, è svizzera). Marino è un tipo schivo, alle volte rude e sbrigativo, altre volte invece ricco di humor, di simpatia e intelligenza briosa.
D’altra parte per un artista come lui, assediato da mercanti di tutto il mondo, direttori di musei, giornalisti, critici, collezionisti, oltre agli inevitabili seccatori, l’unico modo di vivere in pace e lavorare è quello di farsi negare, nascondersi, essere brusco e trascorrere il tempo libero con chi gli è simpatico e gli va a genio. “Ma io sono un temperamento a cui piace vivere ad essere immerso nella vita (mi dice Marino mentre passeggiamo sul lungomare di Viareggio in una splendida mattina di primavera), mi piace però stare anche appartato, cioè carpire nella vita tutte quelle cose che m’interessano e poi chiudermi in un angolo e rimuginare su queste cose, per rivederle in me stesso, da solo”.
Marino è un bell’uomo, dimostra meno dell’età che ha, è alto, slanciato, capelli brizzolati, ricciuti e folti sulla nuca, un volta aperto e leale, abbronzato, espressivo, con gli occhi che rivelano ogni minimo moto dell’animo, una profonda, distaccata, ironica umanità, da antico etrusco. Soprattutto le mani colpiscono in Marino: grandi, robuste, flessuose, di chi maneggia pietra, bronzo, legno, all’aria aperta, mani che si muovono, quando parla e si accalora, in modo musicale, quasi stesse modellando un suo famoso cavaliere. E lui la scultura la inventa giorno per giorno, facendola, come un umile artigiano, che gioisce nel lavoro e ritrova se stesso attraverso la materia più rozza. E mi dice Marino: “Un grande artista è come un bambino, ha qualcosa dentro più grande di lui, e questa grandezza lo impressiona e non lo fa agire, perché tutto l’interno di lui agisce e supera la testa sua, ha paura di tutto e ha rispetto per le cose che sono state fatte prima di lui. Ma se non hai rispetto non sei abbastanza intelligente e se non sei abbastanza intelligente non sei un grande artista: il rispetto per il passato vuol dire intelligenza, il rispetto di queste cose vuol dire la grandezza e il capire quanto tu sei piccolo e quanto tu puoi essere grande…”
L’intervista:
Maestro, ha compiuto 75 anni…
Non me lo dire, la data mi deprime, il giorno del mio compleanno mi metto in treno e non sono raggiungibile da nessuno. D’altra parte penso di aver realizzato quello che desideravo anche se non mi considero ancora arrivato al traguardo.
Le piace viaggiare?
Certo, viaggerei volentieri a piedi, ma come si fa, i piedi si gonfiano, vado in treno, macchina, in carretto pur di fuggire, pur di andar via, levarsi di torno, cambiare lo scenario continuamente.
Ma a Roma però viene raramente, come mai?
E che ci vengo a fare? Quando vengo, hai visto, si mangiano i carciofi alla romana, si lavora, rivedo lastre e incisioni, e poi vado via, a Roma avete fatto già tutto, che ci vengo a fare?
Ma lei si trova bene in questo nostro tempo che consuma, brucia tutto, sempre più in fretta, sembra che non ci sia più tempo di pensare all’arte?
Il mondo effettivamente è diventato piccolo e si viaggia molto, di conseguenza si perde la propria verità. Prendi, ad esempio, il Giappone: ha fatto sua la moda dei grattacieli americani e con questo ha perduto una parte del suo carattere. Si deve essere in grado di immaginare più che di vedere. Sono nato in Toscana e penso di aver conservato lo stile degli etruschi; loro rappresentano la mia cultura. Nel mio lavoro c’è uno stile, un’osservazione diretta che si richiama e collega alla cul- tura etrusca. Era un popolo curioso, quello etrusco, semplice ma anche molto raffinato. Le loro figure sorridono in modo ironico, ma questa ironia vuol significare anche intelligenza e fantasia, l’intelletto etrusco presenta le persone in un modo superiore e ci tramanda una verità che sta al di sopra della verità stessa. Come mai? La capacità di fantasia e la forza creativa si sono semplicemente concentrate in una razza. Nella Toscana la gente ha una grande capacità di osservazione, più acuta che in qualsiasi altro posto.
Quando visitai per la prima volta il Museo di Firenze e vidi le opere degli etruschi, mi sembrava di aver già visto quelle cose, non erano nuove per me, in loro io vedevo me stesso e così ebbi la precisa e sicura sensazione di averli sempre conosciuti. Non ho studiato gli etruschi, forse perché mi sento anch’io etrusco, sono come loro, ho il loro istinto, la loro ironia. Anche l’arte non si lascia studiare o imparare, l’artista già alla nascita porta con sé un fardello di qualità poetiche attraverso le quali riuscirà ad imprimere alla forma il sigillo dell’arte. Ho insegnato quarant’anni però ai giovani ho lasciato molta libertà, seguivo il loro temperamento, il loro spirito.
In tutte le opere che ci hanno lasciato gli etruschi aleggia di continuo il pensiero della morte, la paura della morte.
Anch’io vedo la morte come qualsiasa di terribile, come fosse un muro, al termine della vita. E dopo, al di là?
Lei crede in Dio?
La divinità è senza fine, universale. per tutti esiste un Dio. Non si può essere un grande artista senza credere.
Lei è famoso per le sue Pomone, questa sorta di dea dell’abbondanza della prolificità, dell’amore, per i Cavalieri. Lei crede al mito?
Il mito esiste come favola, come pensiero che non ha contorni netti. Per gli antichi il mito aveva un significato divino, per me invece è realista, pagano, barbaro. I miei cavalieri hanno registrato quello che è accaduto nel tempo in cui vivo: iniziano leggeri, sereni, gentiluomini a cavallo e poi finiscono tragicamente. Un artista è toccato dalla sua epoca, la mia giovinezza è stata tranquilla, però dopo venne la guerra, la bomba atomica, la disperazione degli uomini che non si volevano più pacificare. Questa realtà, questo non comprendersi, non comunicare, ha influito certamente anche sulle stile della mie sculture…
Come nascono le sue sculture, Marino?
Mah, vedi, non lo so nemmeno io, si raccolgono impressioni, si entra nello studio, si fa una macchiolina di colore, uno schizzo e sopra questo schizzo, questa macchia di colore si sviluppano molte altre idee; prima di eseguire un lavoro penso e rimugino molto tra me e me, io accatasto molte cose una sull’altra, dalle quali poi un’idea si fa largo ed esce. Il risultato è uguale o diverso e in tutti i casi più efficace e potente di quello che avevo previsto. Comunque dietro a tutto ciò c’è un segreto, un qualcosa che non so spiegare.
Come mai, Marino, Lei si separa con grande dispiacere dalle sue opere? Addirittura una volta andate in giro per il mondo le segue come un padre premuroso col proprio figlio?
E’ vero, non posso pensare di perderle, esse riscaldano la mia presenza qui e mi aiutano ad andare avanti col lavoro. Per questo ho donato alla Galleria d’Arte moderna di Milano molte mie opere, si trovano nel museo e così le posso andare a trovare quando voglio.
Lei mi ha detto che dopo aver lavorato ha bisogno di viaggiare, di cambiare scenario e uno dei luoghi che maggiormente la suggestionano, mi sembra che sia Parigi…
Parigi, tutto il mondo, qualche volta si dice Parigi, non è Parigi, è un pezzetto di prato, un albero, una foglia, una roba lasciata per terra, chi lo sa, offrono qualche volta delle forze e delle immaginazioni fertilissime, più che una grande città. La città ti dà altre idee, altre forze, altre visioni; c’è il tormento della folla, il tormento della faccia dell’umanità. E’ tutta un’altra questione e poi non si può classificarla, la città e la foglia, l’una vale l’altra, tutte e due insieme creano l’opera, insomma…
Lei, invece, ha bisogno dell’inezia, del nulla, per ricaricare l’immaginazione?
Qualche volta il nulla è felice, qualche volta il nulla è malinconia, qualche volta la malinconia ti dà la disperazione, quella è pericolosa! Allora bisogna uscirne fuori, con l’ironia. Guai se non ci fosse l’ironia, per me l’ironia è il senso vitale. Quello che salva le persone serie, equilibrate è proprio l’ironia, cioè il vedere le cose da un punto di vista non calcolato, non misurato, ma pieno di immaginazione, di fantasia.
Franco Simongini