Da, “IL TEMPO”, 23 marzo 1977
In un recente volume dedicato al pittore Giacomo Balla si torna ad esaltare, giustamente, la genialità dell’artista e il suo decisivo apporto al movimento futurista; Balla e Boccioni i Maestri del Novecento italiano che, insieme con il teorico Marinetti, hanno portato una ventata nuova nell’ambiente artistico contemporaneo. Quello che vorremmo segnalare, a proposito di Balla, è come tutta la critica abbia sempre privilegiato il Balla futurista, e con molto acume, diciamo noi, però mettendo troppo la sordina, o addirittura negando, tutto il lavoro fatto da Balla prima e dopo il futurismo, e in particolare quello dopo gli anni trenta, dedicato esclusivamente ai ritratti e ai paesaggi, quadri che sono per la quasi totalità inediti. Ma prima di dare la parola alle figlie del pittore Luce ed Elica Balla, che come vestali vegliano amorose e tenaci sulla memoria del padre, vorremmo riportare alcune frasi di una breve ma interessante intervista radiofonica del 1952, fatta da Balla, credo, da Enrico Falqui (unico documento sonoro della voce di Balla che purtroppo è andato perduto. Nessuno alla registroteca della RAI ha saputo infatti darmene indicazioni), in cui il pittore parlava di Marinetti: “Mi piace ricordare il Marinetti dei nostri primi incontri agli inizi della movimentata lotta sostenuta dal futurismo, ammiravo in lui l’impeto generoso e temerario con cui lanciava e difendeva l’ideale rinnovatore del futurismo contro l’ostile incomprensione del pubblico, era straordinario vedere come, dalla lotta che talvolta degenerava addirittura in mischia egli ne uscisse fresco e sorridente, e mi pare ancora di vederlo apparire all’Aragno, dopo la turbolenta serata del Costanzi, calzando, una scarpa sola, l’altra l’aveva lanciata sulla schiena di un passatista fuggitivo…”. E al riguardo del movimento futurista, Giacomo Balla rispondeva a Falqui: “Il Futurismo Italiano sorse come movimento irresistibile e inevitabile, espressione di quel bisogno di rinnovamento che ormai urgeva, in ogni campo, per adeguare ogni forma di vita all’immenso cambiamento operato in questo nostro secolo dal divulgarsi delle straordinarie scoperte scientifiche”. “Il Futurismo più che nel campo dell’arte pura – affermava Giacomo Balla – ha influito in ogni manifestazione di vita dei nostri tempi, il suo influsso si palesa infatti dall’architettura all’arredamento, dalle vetrine all’abbigliamento, ovunque il futurismo ha dato la sua impronta, fu questo bisogno di rinnovamento che ci portò quarant’anni fa a sfondare le dighe del passatismo e mi rincresce ora vedere passare dalle brecce aperte all’arte nuova, tante deviazioni e deformazioni che fanno orrore. Pure nell’attuale confusione, forse anch’essa necessaria, è certo qualche fermento che in un tempo avvenire si manifesterà in quelle forme di Arte pura e illuminata da nuovi ideali, di cui fiduciosi attendiamo l’evento…”. Quindi Balla non giudicava chiusa l’esperienza futurista, anzi la nuova arte doveva nascere proprio da questa esperienza. Con questo principio Balla, considerando forse il futurismo nato troppo presto per un paese come l’Italia, ritorna a una forma di pittura figurativa però mettendo a frutto tutta la lezione dell’avanguardia futurista; da questa, gli ultimi quadri, paesaggi e ritratti. Ecco quello che dicono le figlie, Luce ed Elica, anch’esse pittrici, che hanno due nomi squisitamente dinamici e futuristici: “Perché i critici vogliono a tutti i costi definire e concludere l’attività pittorica di nostro padre? La storia dell’arte si fa mostrando i quadri, sarà il pubblico, sarà la critica più meditata e autorevole a dare un giudizio, ma dopo aver visto i quadri attaccati alla parete di una mostra. Eppure è un luogo comune ripetere le solite stupidaggini e cioè che Balla è finito come pittore al tramonto degli Anni Venti. Balla come tutti i veri pittori è grande artista sempre, prima e dopo il futurismo. Basta vedere il grande ingegno e abilità con cui ha dipinto gli ultimi ritratti sfruttando le esperienze futuriste nel taglio della composizione, nell’accensione moderna dei toni, ma questi ultimi quadri non sono stati mai accettati nelle più recenti rassegne dedicate a nostro padre; non sono stati mai esposti perché giudicati addirittura cattiva e inutile pittura”. “Balla è pittore solo quando fa il futurismo, dicono i critici cosiddetti d’avanguardia. Tutta l’ esperienza futurista del contrasto dei colori del movimento, della velocità, era condensata negli ultimi dipinti dove si aggiungeva anche la perizia del ritrattista, del pittore divisionista di fine Ottocento. Adesso i critici sono troppo occupati a scoprire Balla futurista e prefuturista. Poi quando avranno digerito il futurismo s’accorgeranno che qualcuno dei giovani artisti impegnati della nuova figurazione si sta movendo nella direzione impressa da Balla negli anni Trenta e Quaranta. Sono sempre i giovani artisti che scoprono l’attualità dei grandi misconosciuti. I critici d’arte, diceva nostro padre, sono come la polvere sugli oggetti, togli l’oggetto e non c’è più la polvere”. Vale la pena ricordare che Balla rinunciò al denaro e alla gloria, agli inizi del Novecento, per lanciarsi nell’avventura futurista, per tornare come ai tempi della giovineza a fare la fame, ad essere maltrattato dagli amici e vecchi estimatori. Dopo il futurismo eccolo di nuovo ricominciare da capo, buttare tutto all’aria, tornare ai ritratti.“Il movente principale della sua molteplice attività artistica è in fondo uno solo, l’amore dell’umanità. Tutte le persone, infatti, che hanno posato per i ritratti di mio padre – continua Elica Balla con il suo sguardo timido ma nello stesso tempo malizioso; gli occhi chiari, grandi, come dovevano essere quelli del pittore – lo hanno sempre ricordato come un vero amico, mentre lui, l’artista scrutava, negli atteggiamenti e nei volti in posa, la vera e intima espressione dell’animo; faceva il ritratto solo a chi gli era simpatico, e “caro Balla” era l’espressione spontanea di chi lo conosceva. Mio padre incoraggiava sempre tutti, specialmente i giovani, ripeteva spesso “bisogna sollevare gli animi”. Era talmente psicologo che se una persona aveva qualche pena nascosta, anche se velata dal sorriso, egli se ne accorgeva e cercava in tutti i modi di rallegrarla. Ad esempio, per dipingere i quattro quadri della serie I Viventi che lo rese improvvisamente celebre nel 1909, andava negli ospedali, nei manicomi, nei dormitori pubblici, nelle strade di periferia, per trovare i suoi modelli ed era sempre sereno tra questa gente, aiutandola qualche volta anche materialmente. “Anche il futurismo, per mio padre, doveva servire a svegliare le coscienze, così cercò di creare, con l’arte futurista, gli oggetti più adatti e allegri per l’arredamento: paraventi, mobili, vestiti, decorazioni. Usava spesso dire, in quei tempi di lotta per il rinnovamento dell’arte e della vita, che “bisogna pulire la tavolozza, schiarire gli ambienti, colorare, illuminare; così anche le idee di chi vive tra colori luminosi, chiari, saranno più belle”. Balla è morto povero e dimenticato, il suo genio è stato riconosciuto universalmente (prima all’estero, come spesso accade), soltanto negli ultimissimi anni di vita. Nostro padre aveva sempre detto che il futurismo sarebbe stato veramente compreso dopo la sua morte, ma con grande forza d’animo continuò a lavorare per vivere, ai suoi ritratti, e malgrado tutto era sereno e fiducioso, sapeva di essere nel giusto e nel vero”. I soggetti preferiti da Balla negli ultimi anni di vita erano gli alberi, un ritorno alla natura che egli aveva sempre amato; di villa Borghese conosceva ogni arbusto, e sapeva, come scrive nei Taccuini, qual era il più alto e il più bello. Già nel 1906 intitolava un quadro “cantano i tronchi”; dipinse alberi martirizzati durante il futurismo, nel 1918, e soprattutto Villa Borghese dove andava “a cercare gli ippocastani – come racconta la figlia Elica – perché gli ricordavano Torino, dove era nato, il verde del Valentino. A via Paisiello la cosa che amava di più era un eucaliptus da lui dipinto molte volte, e in tasca ne portava sempre una foglia per odorarla. “Per dirle l’amore di Balla per la natura (adesso direbbero interesse ecologico), basta citare l’episodio di mio padre, di Duilio Cambellotti e di Marcucci, mio zio, che ai primi del Novecento, andarono a piedi da Roma ai Castelli per piantare un cipresso. Era una specie di rito e di pellegrinaggio. “Un altro quadro famoso è quello che è ora alla galleria d’Arte moderna, a Valle Giulia, intitolato Parco dei Daini del 1910, dipinto dal vero. Balla aveva chiesto uno studio all’interno della villa, al sindaco Nathan, ma gli fu sempre negato e allora ha dovuto fare il quadro, che era enorme in quindici pezzi, perché non poteva portarsi dietro, ogni mattina, una tela così grande. A Valle Giulia, proprio dov’è la Galleria un po’ più a monte, abbiamo abitato negli anni ’27-’28-’29 e lì dipingeva paesaggi tutti i giorni e diceva “Chi ha detto che nel paesaggio è stato fatto tutto? Nel paesaggio non è stato fatto niente, cambia la luce, il colore; è ancora tutto da fare”. Negli ultimi anni andavamo a dipingere vicino Roma, a Sacrofano, e poi a Monte Mario, di fronte all’ansa del Tevere. “Poco prima che morisse, era malato e usciva di rado, una mattina che riuscii a portarlo fuori – racconta Elica Balla – mio padre mi disse sereno come sempre: “cara Elica, anche gli alberi hanno un anima, e a saperli ascoltare qualcosa vogliono dire, soprattutto agli artisti. Il segreto è cogliere il loro messaggio, e valeva proprio la pena, questa mattina, di uscire, per vedere lo sfarfallio delle foglie dei pioppi al vento, il tramutarsi continuo del loro colore…”.
Franco Simongini