Da, “IL TEMPO”, 16 maggio 1976
Con il cappello di paglia, da muratore, e una piuma infilata svolazzante, di lato, Manzù ti viene incontro brusco e deciso, un uomo affabile, alla buona, che ci tiene a definirsi un artigiano, un operaio che ha dovuto guadagnarsi la vita duramente, e che ora (uno dei più famosi artisti del mondo, conteso da gallerie, musei, collezionisti, mercanti e ammiratori a nugoli) vive isolato, con la sua famiglia ad Ardea, a Campo del Fico, dove ha una casa, uno studio, e tanto verde e prati intorno. Manzù mi dice che ha sempre amato il caldo e quando per la prima volta si trovò a vedere questo poggio, situato proprio di fronte alla vecchia Ardea, brullo e caldo d’estate, pensò che questo era il luogo ideale per vivere e lavorare. Ha speso un patrimonio per piantare piante, pini, rose, cipressi, dappertutto, e lì comincia la sua giornata, alle sei del mattino, a modellare la creta, a incidere lastre per l’acquaforte, a seguire il lavoro degli scalpellini che sbozzano le sue statue, a disegnare.
Il piccolo mondo di operai che ruota intorno a Manzù, a Campo del Fico, è operoso e fervido, e il Maestro, con la piuma sul cappello, a mezzogiorno “stacca” anche lui, per mangiare e riposarsi. Personaggio complesso e semplice allo stesso tempo, Manzù, comunista convinto, ha sempre subìto il grande fascino della religione e dell’apparato ecclesiastico. Famosi i suoi cardinali, le crocifissioni, la porta della Morte a San Pietro, tutte suggestioni nate nella sua infanzia, povera e dura, a Bergamo, dove è nato il 22 dicembre 1908, da un ciabattino, padre di numerosi figli che faceva anche il sacrestano, e da una madre molto religiosa e comprensiva. Messo a lavorare assai presto, addirittura bambino, Manzù si vanta oggi di essere uno dei pochi artisti che conoscono appieno la materia del proprio lavoro. Ha lavorato presso falegnami, doratori, stuccatori, scalpellini, sbozzando il legno, il marmo, la pietra, il cristallo, il gesso, la creta, un duro tirocinio che consentirà a Manzù di trattare sempre con grande sapienza e abilità le materie delle sue creazioni.
A sette anni, ricorda Manzù, fece la prima scultura, una sirena, popputa, e poi un leone, prendendo a modello un gatto di casa. E poi, i vari mestieri, il militare a Verona, i primi interessi artistici: Bergamo gli offre poco e si trasferisce a Milano, e nel 1928, a vent’anni, vuol tentare l’avventura parigina, e con un amico cameriere parte, non trova lavoro, finisce i soldi, non mangia per diversi giorni, non ha nemmeno il tempo di andare nei musei a vedere i Maestri che ama, sviene per strada per la debolezza, viene rimpatriato col foglio di via obbligatorio come persona sospetta.
Una seconda visita parigina, più tardi, andrà meglio, anche se breve, e può dedicarsi al giro delle gallerie. Ma è inutile qui ripercorrere le tappe della sua carriera, basterà ricordare la sua amicizia con Papa Giovanni anche lui bergamasco, e che doveva essere di stimolo alla realizzazione di uno dei capolavori dello scultore, la porta della Morte di San Pietro. Pochi i fatti esterni significativi della vita di Manzù, Bergamo, Milano, Roma, la grande povertà e poi la fama, pochi viaggi, tutto volto al lavoro, ed ora, da molti anni, vive a Campo del Fico con la moglie Inge, tedesca, una signora bella e gentile, che si occupa della Raccolta Amici di Manzù (un museo con gran parte delle opere del Maestro, vanto di Ardea I due figli, Giulia e Mileto rispettivamente, di tredici e dieci anni, vivono e studiano in Germania, dopo il tentativo di rapimento avvenuto qualche anno fa, un fatto che ha lasciato Manzù molto scosso. Nello studio di Ardea, Manzù ha appeso, ad una parete, una sedia di paglia che si è portato ovunque dietro, da Bergamo: una specie di portafortuna, simbolo della semplicità casalinga, familiare, una cosa concreta, amorosa, una sedia che significherà molto nell’attività artistica del Maestro, che sarà protagonista di molte opere di Manzù, povera e nuda come
il ricordo della sua infanzia.
Gli chiedo:
Lei si è ritirato a vivere in una località isolata vicino Roma, a Campo del Fico, ad Ardea. Una volta aveva lo studio a Roma, all’Aventino. Come mai ha lasciato Roma?
Vivo in campagna, vicino al mare, perché questa luce mi ha invitato ad abitare con essa.
Pensa che Roma sia diventata quella città assurda, sporca, caotica, come alcuni scrittori l’hanno definita?
Roma è una città stupenda, ma è ormai diventata un ripostiglio di macchine e di persone.
Lei va spesso in Germania (sua moglie Inge è tedesca). Per lei artista che differenza di clima culturale trova, tra Roma e la Germania?
Si, è vero, io vado a Monaco, essendo la città natale di mia moglie Inge. Non mi interesso mai, però, dei climi culturali, sebbene abbia per questo tema una profonda stima, sia per quanto si fa nelle altre città della Germania.
Qualche tempo fa la sua persona è stata colpita da un drammatico fatto di cronaca, il tentato rapimento dei suoi due figli, Giulia e Mileto. A quell’epoca lei fece delle dichiarazioni piuttosto dure, ed oggi, a distanza, come giudica quel doloroso avvenimento, in cui rimase ferito anche un suo collaboratore?
Le mie dichiarazione piuttosto dure sul tentato rapimento dei miei due figli Giulia e Mileto, non posso altro che ripeterle, aggiungendo, inoltre, che le conseguenze sulla mia vita personale, sono solo strettamente dolorose. Purtroppo queste sono piaghe sociali che non possono venire solamente da questi ignobili banditi, ma vengono anche dalla società in cui viviamo.
Tema di molte sue opere: la pace, la famiglia, l’amore, la solidarietà tra gli uomini. Qual’è è secondo lei il compito dell’artista oggi?
L’uomo che si trova di fronte al tema dello spirito, ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli uomini, perché vive nella stessa società.
Lei ha sempre raccontato che ha cominciato a lavorare fin da bambino perché veniva da famiglia povera e numerosa, ed ha sofferto rinunce e patimenti. Questo aver sofferto e faticato ha lasciato tracce nel Manzù di oggi, famoso in tutto il mondo? Lei ha sempre amato la materia che ha lavorato (la creta, il marmo), è autodidatta, cosa pensa delle Accademie d’Arte, servono a preparare gli artisti di domani?
Alle sue domande, non posso rispondere, che per me non c’è passato, né futuro, in quanto io rispondo al presente, perché è solamente in esso che devo distinguere il buono dal cattivo, sia per la mia persona che per il mio lavoro. A parte questo, le dirò, che le Accademie e i Licei per le Belle Arti, sono ormai delle istituzioni decadute al principio del secolo, e l’insegnamento riguarda solamente la conoscenza continua delle materie. In quanto allo spirito, poi, i giovani seguono gli uomini di cultura di ogni Paese, il resto si lascia solo alle malinconie dei titoli.
Lei ha fatto il ritratto a Papa Giovanni XXIII, ed è stato uno dei pochi artisti ad avvicinarlo e conoscerlo (anche perché il Papa era suo compaesano di Bergamo).
Come ricorda, lei papa Giovanni?
So che Papa Giovanni ha posato solamente al ritratto che gli ho fatto io, in 14 pose. Il suo ricordo è caro in me, perché era un uomo con il quale si parlava dell’umanità, della bontà e della pace, punti questi, che non sono mai stati toccati dai sovrani.
Qual’è il suo ideale di bellezza femminile?
L’ideale di bellezza femminile per me si chiama Madame Curie.
Quali sono gli aspetti più negativi della civiltà contemporanea? E quelli positivi?
Gli aspetti più negativi della nostra civiltà contemporanea sono: il vizio, il denaro, l’incultura e la destra. Quello positivi sono il rovescio.
Lei non ha mai fatto, di sé alcun ritratto (almeno credo), né a disegno, olio o in scultura. Come definirebbe Manzù, in poche parole?
Non posso definire o accettare di parlare di Manzù, in quanto io stesso non mi conosco.
Un’ultima domanda Maestro: che cosa pensa lei, oggi, dell’arte in generale e nel suo essere artista?
Le dirò che i miei genitori si chiamano mamma e papà, ma anche Fidia. Poi, Inge, la mia sposa, ed i miei figli, Giulia e Mileto. Dopo questa carta d’identità, le dirò che all’aspetto attuale, sul pensiero culturale, non mi sento di partecipare. Nel secolo passato è nata questa idea della libertà totale, che poi si è consacrata, ed oggi considerata il primo passo nella cultura. Ma qual’è questa libertà? Quella forse che l’arti sta si deve esprimere verso se stesso, o deve seguire le ragioni della cultura del suo tempo? Si sa che l’uomo di cultura è il timbro del proprio tempo, o meglio ancora, è il rivoluzionario; ma anche detto questo, si può dire che è sempre al servizio di qualcosa o di qualcuno, come Beethoven ha servito, anche Shakespeare, anche Michelangelo, anche Giovanni Pisano, ed anche il famoso Fidia. I Maestri antichi non hanno mai corso l’impiccagione o la galera, o la schiavitù del servizio, quando il loro spirito era diverso. Tutti hanno servito o Dio o i potenti della terra; ma oggi, di che cosa vivono? Se non è un mangiare se stessi anche servendo i potenti del denaro o i mercanti, fioriti più degli stessi artisti, facendo di tutto questo un commercio e critiche a non più finire?
Ma non è forse tutto inutile, come la detta libertà, che tutti la pensano come il loro battesimo, come pure la borghesia di tutti i paesi?
Anche la televisione di Montecarlo ha la libertà di parlare male delle cose vere e buone. Anche il nostro Governo ha l’inciviltà di parlare e di non ammettere l’aborto che è rispettato in tutti i paesi civile del mondo. Tutti parlano di libertà. Certo, la libertà ci deve essere, ma nel senso morale e formale, come era in Cézanne e Van Gogh, e come Picasso e Matisse, e cioè come era per il loro spirito, che aveva assorbito lo spirito e non la cultura del proprio tempo. Per non parlare poi, di tutti i servilismi e di tutti gli accademismi del tempo. E’ qui che io dico che la libertà è un fatto spirituale col quale alcuni uomini vivono, e che riconsegnano ad altri uomini, dopo averla avuta in dono dagli uomini precedenti. A questo punto, le dirò di lasciarmi questo pensiero per quel poco che io faccio, e di lasciarmi almeno questa soddisfazione, che io non sia inutile agli esseri fra i quali vivo e che da loro possa avere il necessario, anche se è un servizio, se volete.
Questa è quella poca libertà che io immagino e che la natura e gli uomini mi donano.
Franco Simongini