Accade sempre, quando un autore è prolifico e mostra molti interessi, che la critica si soffermi su una sola delle sue attività considerandola, a torto o a ragione, quella più importante. È avvenuto anche per Franco Simongini, giornalista, critico letterario, regista, poeta, narratore. La critica ha trascurato il poeta, in tempi recenti, prediligendo il regista e il critico d’arte. Pochi si sono accorti che Franco Simongini è soprattutto poeta, anche quando ha scritto in prosa, anche quando si è rivolto al pub­blico televisivo con i suoi indimenticabili documentari.

Del poeta però s’erano accorti Carlo Picchi, Mario Luzi, Carlo Betocchi e Carlo Bo, occupandosi della finezza espressiva di Simongini, evidenziando la natu­ralezza del suo canto, la freschezza del dettato che “non montaleggia, non lorcheggia, non elioteggia, e via di seguito: italiano 1957”.

Detto da Betocchi è il maggiore complimento che un poeta abbia potuto rice­vere: Simongini viene riconosciuto erede della magnifica e inimitabile tradizione ita­liana, che va da Cielo D’Alcamo a Umberto Saba, da Guido Cavalcanti a Tasso, Foscolo, Leopardi, Cardarelli, a Ungaretti.

È su queste coordinate che nasce e si sviluppa il mondo poetico di Simongini che, intendiamoci, non è sordo alle novità, anzi nelle novità ci entra senza cautele, ma ne esce indenne, forte del suo mondo intcriore e delle sue scelte, convinto che la poe­sia, pur essendo “dolore, cosa vana / per la superbia del mondo” possa dare agli uomi­ni una briciola di “realtà” autentica, quella che permette di saper poi avvertire la pre­senza della verità, fatta di sussurri, di improvvisi batticuori, di percezioni che orga­nizzano perfino la vaghezza in incontri imperituri.

C’è, in tutta la poesia di Simongini, la consapevolezza di essere e di esistere, il riconoscimento dell’umano, la carnalità effimera di chi avverte transitare le cose e ne sa prendere gli echi, il sussulto impercettibile, l’acconto per il domani: “Se perdo queste cose lascio la mia vita / smemorarsi. Qui solo è verità”. Del resto, mi si faccia conoscere un poeta che dando alle stampe un suo libro nel 1954, in pieno clima neo­realistico, abbia avuto l’intelligenza, la sensibilità e il coraggio di riportare sul fron­tespizio, a mo’ d’introduzione alla raccolta, l’affermazione di un fisico nucleare come J. Robert Oppenheimer: “Questo è un mondo in cui ciascuno di noi, conoscen­do i pericoli della superficialità ed i terrori della fatica, deve attaccarsi a ciò che gli sta più vicino, a ciò ch’egli conosce, a ciò che può fare, ai suoi amici, alle sue tradi­zioni, ai suoi amori, per non finire disciolto in una confusione universale, senza sape­re nulla, senza amare nulla…”.

E Simongini infatti resta attorno, se non alla propria stanza, al proprio condomi­nio, che conosce a fondo, che ama, che è materia duttile e malleabile, ricchezza umana e poetica: “Qui attendo che il mio sangue si faccia / pianta, rena, fontana e fogna”.

È d’obbligo soffermarsi sul rapporto che Simongini ebbe, all’epoca della composizione dei versi di Via Etruria 44, con i poeti più in voga in quegli anni. Io credo che il suo rapporto col neorealismo sia stato abbastanza tenue, se non irrilevante. Semmai egli fu preso più dalla lezione dei vari Cardarelli, Bontempelli, Alvaro e Betocchi che, col loro realismo magico, col loro colorismo, gli dettero l’idea di una poesia radicata sicuramente nel proprio mondo personale, ma ricca di emozioni arrivate dalle suggestioni dell’arte, oltre che della vita.
Via Etruria perciò nasce opera matura, con tessiture linguistiche piane e semplici, dense e cristalline, con impennate liriche che possono far pensare più agli ermetici anziché ai neorealisti. Infatti, se andiamo a scandagliare il linguaggio adoperato da Simongini ci rendiamo conto che egli rifugge dai calchi ricorrenti. Non ci sono perciò nel volume riferimenti, se non esili, alle condizioni della vita misera, al documento, per intenderci. Troviamo certamente le “case proletarie”, ma sono appena dei colori, non una condizione sociale. In sostanza Simongini è un lirico che non approfitta mai della sua felicità espressiva, che non carica le tinte e non si bea delle accensioni, ma che è tutto teso a cogliere il bagliore coloristico del paesaggio, la sua intima natura, il sublime che guizza e si effonde ovunque.
Una indagine andrebbe fatta, per esempio, sul rapporto di Simongini coi colori e sui quattro o cinque quasi “ossessivi” ritorni di immagini. Il cortile, la fontana, le aiuole, la varietà degli animali presenti, dei fiori…, così come andrebbe fatta un’indagine sui compagni di strada un po’ più anziani, come Libero De Libero, Giorgio Vigolo , Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto, che probabilmente furono le prime letture di contemporanei da lui fatte. Anche in Simongini, come in questi poeti, c’è la cultura che si fa metro di ascolto e di rinominazione degli stati d’animo e degli eventi. In Sinisgalli la naturalezza e la spontaneità diventano misura lirica che s’impasta alla cadenza espressiva che via via produce sinestesie efficaci; in De Libero la letteratura diventa specchio di un’umanità corrosa dal tarlo dell’effimero; in Vigolo l’arte aggruma spazi della vita e illumina il percorso dell’uomo; in Gatto musica, colore e sentimento si alzano in vorticose accensioni di luce e creano momenti di abbandono; in Simongini gli affetti diventano oggetto imprescindibile del suo mondo e si fanno valore aggiunto della condizione, oltre che umana, anche latamente esistenziale. Egli infatti riesce a portarci all’interno del suo condominio, nel primo libro, non come un ospite che vuole farci visitare i luoghi in cui vive, ma come una guida spirituale che vuole legarci ad archetipi in cui sono racchiusi valori universali.
Ho citato Vigolo, Gatto, Sinisgalli e De Libero (ma andrebbero aggiunti i nomi di Bartolo Cattafì, di Maria Luisa Spaziani , di Elana Bono, di Sergio Solmi, di Margherita Guidacci, di Paolo Volponi e di Antonio Barolini, di Elena Clementelli, di Luciano Luisi , di Giacinto Spagnoletti) per evidenziare la caratteristica di Simongini a rifuggire dalle facili adesioni della moda. Egli voleva esprimersi in piena libertà, senza scimmiottare alcuno, senza entrare nel solco dell’attualità. Infatti fa ricorso, ignorando le istanze del neorealismo e anche di molto ermetismo, alle origini della poesia italiana, al dolce stil nuovo, per legittimare il se stesso poeta fuori da battesimi inventati sull’onda delle suggestioni facili. Ed è così che ricorre, dopo Via Etruria 44, alla formula dantesca di prosa e poesia, alternando il dettato, immergendosi in un’atmosfera in cui l’idillio trova una rigenerata cadenza e un rinnovato afflato, ancora una volta, “casto e severo”, come piaceva dire a Betocchi.
Ma vediamo più da vicino questa poesia a un tempo colta e spontanea, essenziale e priva di ammiccamenti ambigui, e cominciamo dalla dichiarazione fatta dal poeta a inizio del libro. “Sono ormai per sempre anch’io / attaccato con un chiodo ad un cancello / su cui è scritto: “Via Etruria, 44 “.
Come in un film (non sarà casuale che poi avremo un Simongini regista) siamo immediatamente messi davanti alla realtà (ma si badi che non è caricata di valenze sociali, sociologiche o antropologiche) del numero 44 di Via Etruria:

“II portone di legno nero, la fontana
rettangolare senza un filo d’acqua
che prima aveva due tartarughe in cima
a due pilastri, l’arco scorticato,
la fontana rotonda, grande
(una volta con i pesci rossi),
le aiuole lunghe e strette con i fiori
e l’erba incolta, i cancelli verdi che danno sulla strada con i lampioni curvi…

Il poeta si limita a registrare la condizione, a confessare d’essere vissuto “sano e felice” in quel luogo “dove gli uomini piangono e ridono, in silenzio”. Dove sono le note neo-realistiche? Dove gli aggettivi crudi e risonanti d’asprezza quotidiana? Semmai si potrebbe cogliere un qualcosa di neocrepuscolare, volendo, in cui la quotidianità viene avvolta nella bambagia dei ricordi, ma mancano l’ironia e l’autoironia, perché Simongini è presente al suo mondo senza riserve e senza pensieri sconsolati. Anzi è tutto compenetrato nell’osservazione della fontana “che sciacqua e lagna / la sua interminabile / pena”.
Se poi questa pena la si vuole leggere come il lamento o l’annotazione di una realtà marginale è affare di chi per forza vuole far rientrare in una griglia dei versi che, per il solo fatto d’essere stati scritti e pubblicati agli inizi degli anni cinquanta, devono considerarsi neo-realisti. In questo senso anche la fontana palazzeschiana andrebbe a configurarsi come il lamento di un disoccupato che attende il suo turno di lavoro.
Simongini prosegue il racconto (non troverete titoli, ma numeri romani a scandire i vari capitoli della narrazione condominiale) con piglio, mi verrebbe da dire, surrealista. Vi sono “mani che crescono dalle siepi secche” e “dalla terra che odora di passi”, e c’è “Un soffio” che “è come un giunco / che cresce tra le nevi”. E poi c’è la speranza nei rami degli alberi, nonostante “i fantocci bianchi / posti ad asciugare, fuori / nel vuoto” e nonostante i miseri che “battono i denti”.

La poesia V è dedicata alla madre. Su questo tema si sono esercitati tutti i poeti di tutti i tempi e bisogna dire che gli esiti sono stati quasi sempre convincenti. Il rischio dunque di trattare un argomento così delicato e solito è alto, ma Simongini non si pone neppure il problema. Egli sente di colloquiare con la madre e lo fa senza timori riverenziali nei confronti della tradizione tematica (e quindi senza risonanze, senza imitazioni o debiti da pagare) e forse anche per questo riesce a trovare parole dense e forti che restano a lungo nell’animo del lettore subito catturato dalla sincerità assoluta di Simongini, dalla sua maniera diretta di entrare nel vivo di un rapporto identico per tutti gli uomini, eppure così intensamente diverso e perfino opposto per ognuno.
La chiusa della poesia è una delle perle del libro e crea, ancora una volta senza pesi di retorica e senza eccessi, una identità di madre che si configura come la Madre, il punto di approdo a cui l’umanità tende nei momenti di estrema solitudine, di abbandono, di smarrimento:

E tu qui, con la tua gioia carnale, ti sperderai
nelle rosee dita dei bimbi, nel bisbiglio sommesso
delle donne spettinate, nell’unta camicia
dell’uomo ferroviere. Nel marmo
portone fontana recinto e cemento.
E tu sarai rassegnata nella disperata mia solitudine, o madre di povere cose.

Anche la madre di Quasimodo accudisce un ferroviere (un altro lungo discorso andrebbe fatto sui figli di ferrovieri, tra Ottocento e Novecento, diventati narratori o poeti: sono tanti!), ma è madre rievocata nella lontananza, preoccupata del figlio fuggito “con un mantello corto e alcuni versi in tasca”, non ha la pacatezza dolorosa e consapevole di questi versi che, proprio perché non “pretendono” nulla, diventano ritratto eccezionale.
“Madre di povere cose”! trovo che sia un verso fuori dal comune, sintesi di una intera civiltà, di un’epoca, quella del dopoguerra, che ha saputo coniugare dolore e speranza in un unico ponte gettato verso il futuro.
E che dire del ritratto ” del portiere con la pompa che spruzza”, della “palla di stracci dei ragazzi” o delle “nature morte”, come mi piace chiamarle, che Simongini dipinge da vero espressionista consumato?:

Un barattolo vuoto, con sporca
vernice rappresa sul labbro rotondo,
riposa tra sterpi, sghembo alla luna
che ride, stasera.

Attraverso Via Etruria Simongini ci da la Roma del dopoguerra con mano felice e senza compiacersi in immagini stereotipate , da cartolina illustrata, o in repertori alla De Sica o alla Rossellini. È la sua Roma che appare con quella umanità ricca di piccoli e marginali eventi che sanno saturare l’ansia del vivere con incontri di straordinaria dolcezza e compitezza. Sono più o meno anche gli anni in cui Pier Paolo Pasolini scrive Ragazzi di vita e Una vita violenta, gli anni in cui le borgate vengono alla ribalta e s’impongono come la realtà da ritrarre, considerare e salvaguardare.
Simongini assiste agli avvenimenti, ma non fa deroghe. Oppehneimer lo guida e così non finisce nella confusione universale, nel bailamme indistinto della finta rivoluzione. Le vere rivoluzioni sono quelle che partono dall’interno, che mettono in gioco la propria esistenza, che mirano a rinnovare senza distruggere o ribaltare i valori , ma riqualificandoli sfrondandoli dal superfluo. Certo, c’è “Raro qualche ferroviere” che “torna sudato alle case ombrose” e ci sono “operai alla finestra”, ma sono note di un’orchestra umana varia e difforme, che non rivendica e non sottolinea né la povertà, né la disperazione, né la marginalità. In Simongini è forte, direi prepotente, la sinfonia della vita che egli legge nel suo insieme. Sono certo che se gli avessero chiesto a bruciapelo di che colore era la pelle di Nelson Mandela non avrebbe saputo rispondere, e non perché fosse distratto, ma perché egli non ha mai badato alle pelli per fare distinzioni, così come non ha mai badato alla realtà se non nelle sua interezza, nel suo concerto fatto di cortili affollati di bambini, di aiuole, di fontane, di strade larghe e strette, belle e brutte, così come per lui Roma è il centro storico e la periferia, Via Etruria e il Lungotevere:

L’isola Tiberina, il ponte curvo
di marmo oscurato, le canne sospese
a pescare sul fiume giallo e scorrente
tra sassi e cespugli, le barche nere
ancorate alle travi del molo in rovina,

com’è dolce e vera la vita al lume
dei fuochi accesi al crepuscolo,
i bimbi corrono dietro un cane che abbaia
stizzoso al tram veloce verso Monte Savello.

Le nostre mani posate sul muro scrostato,
il nostro chiedere un motivo al dolore,
un semplice grido che faccia di pietra
le nubi del cielo e dica alla sera
la nostra dolcezza d’essere vivi
a guardare tram barche bambini.

È una poesia scritta molto dopo Vìa Etruria 44 e fa comprendere come Roma sia stata sempre presente e viva nel suo mondo, fino a sentirla carnalmente. La “dolce/ estenuante malinconia” portata dalla sera a Roma è una sorta di lievito che condisce le giornate di chi ci vive, ma è anche il viatico per essere sempre immersi in un cauto ottimismo, quell’ottimismo ridanciano, ancora una volta malinconico e però carico di ansie nuove e dolci che gli farà scrivere , nel 1955, Le canzoni del vagabondo, i cui titoli sono presi in prestito da opere teatrali, canzonette e film. Simongini, in queste composizioni, prosegue quel canto tutto romanescamente universale in cui era entrato con Via Etnuia. Vi aggiunge un pizzico di sale popolano, allunga il verso, lo rende maggiormente musicale e si lascia andare a una piacevole “parodia”, con lunghe citazioni, in cui i significati rimbalzano dal privato al pubblico, in cui l’amore trova una dimensione corale, un brivido che sembra nascere dalle botteghe degli artigiani, dai negozianti dei quartieri, dalle chiacchiere calorose degli avventori dei bar, dall’entusiasmo a volte esagerato e farneticante dei tifosi della Roma e della Lazio.
Poi avviene l’incontro con Firenze e nascemmo balsamo fino, libro compatto e teso , ancora un ritratto di città, davvero “lenta, fresca scoperta di un non formato loco”, e Lapo Gianni diventa il Virgilio che porta Simongini dentro i segreti umori di un’altra grande tradizione culturale e civile di rara bellezza e profondità. Senza sotterfugi Simongini adotta la formula dantesca di prosa e poesia, ma il linguaggio non muta da una pagina all’altra. Il ritmo sì, la musica intcriore, ma gli scatti lirici si snodano con compattezza assoluta illuminandosi a vicenda, porgendosi la mano e quasi sfiorando le cose.
Arno balsamo fino è la storia di un amore assoluto e primigenio, capace di fare sentire Simongini “in comunione con qualcuno”. E il miracolo s’avvera:
“Sapevo che ormai l’avrei rivista, tra pochi giorni. Era l’amore che mi veniva incontro, un atteso e crudele schiaffo, a primavera. Ora ero lì, sulla balaustra di ferro, al Piazzale Michelangelo, e lasciavo l’occhio indugiare su quella bacinella di case, cupole, campanili, su Firenze inondata dal tramonto. Erano molti mesi che andavo pensando a lei, la fanciulla dagli occhi larghi e malinconici, che giungeva di lontano, d’oltre oceano, accesa e spettinata, alla fanciulla che più d’ogni altra sapeva togliermi dal labbro l’eterna frase banale: Ti voglio bene, t’amo, senza di te non potrei mai vivere’.
E cosa avevo lì, appoggiato alla ringhiera? Stelle, un leggero venticello che giocava sul mio volto, un nugolo di fanciulli ruzzolanti dietro una palla di gomma, una città, tonda rosea gota in muratura, che cercava il senso delle mie parole.
Avrei saputo, a quell’ora, al crepuscolo, in quel luogo, con l’animo teso verso il sorriso di lei, avrei saputo mai cogliere il messaggio che Firenze m’inviava?”.
Il messaggio non solo sarà colto in pienezza, ma Simongini ci aggiungerà la freschezza delle sue note, il suo entusiasmo, la sua avidità di vita e di cultura e così Firenze, innestata sull’ humus romano, si aprirà a una dimensione completamente nuova, nella quale Medioevo stilnovistico, Rinascimento e Romanticismo detteranno versi nitidi più simili a disegni, anziché a dipinti, nonostante i colori. Disegni del migliore Rosai, o di Morandi, se volete, in cui non c’è sperpero di una sola linea, di una sola sfumatura.
Simongini si appropria di Firenze, comincia da Via “San Leonardo, strada dei pittori, // docile e mia…” e subito dopo spazia per le piazze, per i colli, cogliendo tratti inusitati, reconditi spartiti di una sinfonia che parte dalle Cascine e s’irradia come un faro su ogni particolare. Ma anche per Firenze egli non si lascia prendere la mano dai dati estemi, dalle cartoline. Ciò che è apparenza non entra nelle sue corde e se guarda l’Arno lo sente “come un agnello bastonato” e il sole lo sente un “furibondo pesciolino”.
Non si serve di memorie o lasciti dannunziani neppure quando entra in gioco l’Affrico. Il linguaggio di Simongini resta casto e privo di impennate, egli cerca la forza espressiva e le suggestioni nella fermezza del sentire, nelle immagini rese con lindore e con partecipazione. A volte addirittura Simongini sembra aver sgretolato impalcature liriche con tocchi d’archetto e rapidi pizzicori di liuto. Si legga la composizione XI in cui si descrive lo spiazzo dell’alza bandiera mentre l’ufficiale di picchetto guarda “il cielo coprirsi di rossetto, / nuvole croccanti come sfilatini”.
Soffermiamoci un po’ su questa immagini, vediamone la semplicità e la icasticità, la bellezza che ha sapore quotidiano e sublime insieme. Niente dannunzianesimo, dunque, e niente neorealismo, ma piuttosto poesìa “onesta”, quella tanto cara a Saba che seppe parlare di uomini e di cose, di dolore, d’angoscia, di gioia e di amore come una sorgente d’acqua che sgorga naturale dalla terra.
E la sola lezione necessaria per scrivere poesia necessaria, ed è la vita ad insegnarla, naturalmente arricchita da esercizi di lettura e di scrittura che affinano il dettato. Io credo che Franco Simongini sia un poeta autentico perché ha adattato le parole alla vita e ai sentimenti senza distoreere né l’ima né gli altri in acrobazie e in lambiccamenti filmistici. Ha travasato le emozioni nelle parole restando fedele a se stesso, riuscendo a dire ciò che voleva senza preoccuparsi di sembrare ermetico, neorealista, post-ermetico o avanguardista. Aveva dentro la sua anima la piena del dire e lo ha fatto con “innocenza”, con quella fresco abbraccio che sa aderire alle cose senza tergiversazioni o infingimenti. 11 risultato è una poesia in cui il sangue del poeta, come desiderava, si è fatto “pianta, rena, fontana e fogna”, cioè, fermento vivo del consorzio umano:

Dicono che l’amore si paghi
con l’amore, dicono tante cose
nelle strade e nei caffè:

“c’era il sole che bruciava le mani
disposte aperte sul davanzale verde
di fiori, e c’era la lunabianca come il velo nuziale
lungo l’Arno, a San Frediano;
c’era il grillo disperso nell’aiolà
alle Cascine, verso l’Indiano,
e cantava, c’erano gli amici pronti
al tuo cuore come frutti di maggio
alla bocca riarsa”.

E ora
ditemi la storia della fanciulla disperata…

 

Anche ne La ragazza col tacco d’oro l’incanto di Simongini, e il nostro restano intatti e persone e cose, paesaggi e sensazioni si aprono in un ventaglio di tinte, di odori e di sapori che portano nella gioiosità del vivere.
Il poeta ha la capacità di farci sentire i brividi degli incontri, di non aggiungere nulla di improprio, di non sottrarre il necessario. Ha scritto allo stesso modo anche i suoi romanzi e le didascalie dei documentai!
Egli era un uomo che sapeva dire pane al pane e vino al vino, che non confondeva l’essenziale con il marginale, ecco perché la sua poesia odora di vita, ecco perché chi legge si sente colmato di dolcezza e gli pare che il suo occhio e la sua anima si siano dilatati verso l’infinito in cui vediamo continuamente sbucare, dopo la lunga attesa, una fanciulla rossa che si avvicina “col volo lieve dei fanciulli e dei piccioni” per raccontare “d’una favola / come d’una tiepida scampagnata / sulle prode alle Cascine, / queste plaghe di deserta luce / ondulata sui labbri erbosi delle nubi”.
Nei libri successivi Simongini è rimasto fedele a se stesso continuando il discorso della limpidezza e della essenzialità, ma soprattutto quello della trasparenza e della godibilità. Soleva dire che per essere profondi non occorre essere oscuri, anzi più si è capaci di comunicare e più si deve essere impegnati a non essere ovvii. Lo ha dimostrato con Da questa Città da questo Castello, del 1976 , con Dialogo con la luna, del 1978, Poesie per gli Angeli, del 1979 e con Elegie romane, del 1986.
Ha ragione Sergio Pautasso: Simongini, soprattutto nelle sue ultime raccolte, ha concepito “la poesia come rappresentazione figurativa, paesaggio”. Man mano che ha stretto amicizia con i grandi maestri delle arti figurative come Giorgio De Chirico e Alberto Burri, ha sentito sempre più il piacere di dipingere coi versi e così quello che all’inizio era una tendenza coloristica e stilistica non vistosa si è a poco a poco arricchita di maggiore senso cromatico fino a diventare vero e proprio affresco. A questo punto il giornalista, il poeta, il narratore, il critico letterario, il critico d’arte e il regista sono ridiventati il bambino che giocava libero nei cortili inseguendo “la gioia strana della felicità, ancora / intatta, da conquistare”, il bambino che non ha perduto il portone di legno nero e la fontana rettangolare dove regna la verità. Se avesseperduto queste cose la sua vita, l’aveva detto chiaramente nella poesia II di Via Etruria 44, la sua vita si sarebbe smemorata, e invece l’ha lasciato in eredità a noi, non solo ai figli Gabriele e Raffaele, ma a noi lettori di oggi, e sono certo che gli echi dei suoi versi giungeranno ben oltre questo nostro tempo di orribili frantumazioni e negazioni della memoria e della storia.

Dante Maffia