“È domenica, è inverno/ è mattina…/ Ho finito ieri il mio quadro…/ La gente va in chiesa…/ Chi è andato a caccia, / chi a pesca…/ il lavoro riprende/ domani, ma la pioggia / lenta scende e dolcemente / predica / che tutto è vano”. Questa bella e malinconica poesia che si chiude sulle famose parole dell’Ecclesiaste, Giorgio de Chirico la dedicò a Franco Simongini (1) il 6 dicembre 1971, scrivendola in calce ad un disegno che rappresenta un suo Autoritratto in costume del Seicento, dal noto dipinto del 1947 dallo stesso titolo, molto caro all’artista, tanto che lo considerava “una delle migliori pitture che io abbia eseguito” (Memorie della mia vita), oggi conservato nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Credo quindi che Franco Simongini sia stato l’unico critico, tra i tanti che si sono interessati all’arte del maestro, a poter vantare un simile sincero ed amichevole omaggio dell’artista italiano, considerato, a torto o a ragione, il più polemico, burbero e scontroso pittore del Novecento.
In realtà de Chirico aveva una profonda simpatia per il poeta-critico-scrittore-giornalista Franco Simongini, per la sua pazienza e la passione per l’arte e per gli artisti contemporanei che egli andava regolarmente a trovare nei loro atelier, inducendoli a parlare apertamente senza posa e senza filtri di ordine psicologico o particolari riserve mentali.
Ora, nel caso di Giorgio de Chirico, Simongini conosceva benissimo le idiosincrasie del “pictor optimus”, l’uso spregiudicato delle banalità e del sottile umorismo che presiedeva le risposte in ogni genere di intervista. Così che Simongini, intuito questo insormontabile ostacolo e conquistata la simpatia del maestro, ci ha svelato, in un articolo su “Lingua e Letteratura” (Giorgio de Chirico e il mistero dell’infinito, traduzione ampliata della lunga intervista televisiva fatta dal critico tra il 1973 e il 1974) del 1986 (diversi anni dopo la scomparsa dell’artista), in che modo era riuscito a renderlo loquace, anche quando de Chirico considerava qualsiasi domanda inutile e fastidiosa: “E allora per rendere l’intervista piacevole e proficua convinsi il Maestro a giocare al gioco dell’intervista: Lui avrebbe recitato la parte del Maestro burbero e supremamente scocciato, e io la parte del giornalista petulante, e curioso. Solo mettendomi dalla parte del gioco penso sia stato possibile, in una schermaglia paradossale fargli dire qualcosa d’interessante sulla personalità segreta”. In questo modo, cioè in chiave ludica, Simongini è riuscito in buona parte ad avere ragione, raggiunse il suo scopo, e ne fu perfettamente consapevole, poiché più avanti afferma con soddisfazione che de Chirico è “certamente un personaggio diverso da come è stato giudicato, soprattutto dai giornali e rotocalchi, addirittura più modesto, più simpatico, più generoso di quello che lui stesso voleva apparire”.
Del resto già la stessa poesia che de Chirico aveva dedicato a Simongini è una confessione umanissima, consegnata da un amico ad un altro amico, non sono certo i versi di un altezzoso pictor optimus quale risulta per contrasto nel teatrale autoritratto; anche se la teatralità, come è noto, è un’importante componente dell’arte di de Chirico, ma serve solo, come sappiamo dagli stessi scritti del maestro, a definire l’alta qualità della pittura che egli ha perseguito come unico fine.
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Stabilite quindi le regole del gioco, tra una battuta e un’altra, un riferimento autobiografico e semplici abitudini domestiche da tranquillo borghese, de Chirico ogni tanto ci svela nell’intervista le fonti delle sue originalissime “visioni”; per esempio, a proposito del tema degli “archeologi”, così risponde a Simongini: “Gli Archeologi sono l’immagine di due personaggi seduti che mi sono venute, credo, guardando alcune sculture arcaiche nelle chiese, dove i profeti stanno seduti e hanno le gambe troppo corte rispetto al resto del corpo”.
Di queste “visioni” de Chirico aveva riferito a Simongini già nel lontano 1971 (Le magiche visioni di de Chirico, in “Vita”, 9 ottobre 1971), affermando che esse si manifestano nello stato che precede il sogno, che il maestro definiva “semisogno”, una condizione – sempre secondo de Chirico – che riguardava anche la creatività dei maestri del passato, e citava un disegno di Dürer con delle nubi talmente maestose che potevano anche essere interpretate come una gigantesca esplosione, nella quale la fantasia dechirichiana intravedeva una premonizione della bomba atomica, nell’ottica della concezione del pictor optimus che l’artista è un veggente.
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Ma de Chirico ci sorprende, per altro verso, quando dichiara ancora a Simongini, a proposito di dipinti aventi ad oggetto i “gladiatori” che spesso compaiono nei suoi dipinti a partire dagli anni Venti (celebre è la serie che de Chirico eseguì per decorare la casa di Léonce Rosenberg a Parigi tra il 1928 e il 1929), ebbene, qui egli non dà una spiegazione colta o museale, ma profondamente umana, oserei dire cristiana, laddove afferma: “In quanto ai gladiatori, questa immagine del gladiatore mi ha sempre colpito perché è un personaggio che non ha nulla a che vedere con un guerriero in battaglia: è un’immagine resa particolare dal fatto che era destinato a morire…”. Non è forse una prova che l’intervistatore Simongini conduceva, con la scusa del gioco, il burbero maestro su un piano di sincera colloquialità?
Ma ecco che quando Simongini tenta un affondo sulla confessione dei motivi di tristezza e malinconia di cui è pervasa la poesia a lui dedicata, Domenica, de Chirico torna a schermirsi; Simongini domanda: “Lei crede nella vanità del tutto”, e de Chirico: “Mah… ci credo fino a un certo punto, del resto a qualunque cosa bisogna pur credere fino a un certo punto. In modo assoluto a che cosa si crede?” Riaffiora qui il pittore dell’enigma, la poetica del nichilismo nicciano del fondatore della pittura metafisica. Simongini ha di nuovo fatto centro, e, capovolgendo il gioco nel gioco, per rendere “l’Intervista piacevole e proficua”, riporta il maestro nella sua consueta alterità. Ecco come il gioco del “giornalista petulante” funziona, e quindi Simongini continua, chiedendogli se è contento quando finisce un quadro, e se questo si concilia con la malinconia leopardiana della poesia, e de Chirico risponde, un po’ stizzito: “Mah… sono contento e sono anche malinconico, si può essere tanto contenti, quanto malinconici, dico”. E allora Simongini si arrende, passa ad altre domande, e gli chiede di leggere qualche altra poesia.
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De Chirico legge Visione:” Case sulle piazze, / case in capo al mondo, / del vicino orizzonte, / dei nostri lontani desii, /Amici veniste una sera / in cui ad ogni momento / la speme fuggiva davanti / alle nostre mani che invano / tentavano di fermarla, / e noi pensavamo / alle bianche acropoli / ove il poeta si esalta / e s’inginocchia”.
In calce il maestro disegnerà la propria mano, appone la sua firma e la dedicherà all’intervistatore con la data: “Roma 20 maggio 1973: A Franco Simongini questa poesia e questo disegno della mia mano, con molta simpatia Giorgio de Chirico”.
Ma Simongini, dopo aver ascoltato questi versi, continua nelle sue ingenue (apparentemente) provocazioni: “Senta: ma questi amici che compaiono: chi sono?” e de Chirico: ”Quali amici?” Simongini: “Lei nella poesia parla di amici, amici in particolare o amici…?” (sembra un po’ l’interrogatorio umoristico di un giudice che si diverte). De Chirico non sa che rispondere: “Beh, nel senso… in senso astratto”, ricorrendo ad una formula evasiva e vagamente surreale. Simongini gli chiede poi se per caso lui fosse un misantropo, e de Chirico, prontissimo, dice: “No, no… no, amo la società, son socievole, sono buono… gentile, educato… educato, intelligente, sì sono tutto questo”. Ed è vero. La provocazione di Simongini ha funzionato ancora una volta, facendo venir fuori tutto l’amor proprio di un gentiluomo dell’Ottocento.
Poi de Chirico continua pazientemente a leggere altre poesie, dai titoli emblematici del suo lavoro di pittore: Odisseo, Il trovatore stanco, Enigma, e il dialogo tra il critico e il maestro si incentra in queste similitudini; come non vedere, infatti, nella poesia Visione, la descrizione in versi delle sue metafisiche “Piazze d’Italia” la luce bassa del “vicino orizzonte”, la sospensione dell’attesa, in “amici veniste una sera” e l’angoscia di ciò che ci sfugge, “la speme” e il ricorso consolatorio nel verso “e noi pensavamo / alle bianche acropoli”; e qui de Chirico deve confessare all’amico che si trattava proprio della “Grecia… la Grecia che tutti conoscono”, lui, che in altre occasioni aveva dichiarato (molto scocciato) che la Grecia non c’entrava niente con la sua pittura! Ebbene a Simongini non può mentire, ammette con candore che le “bianche acropoli” sono la Grecia. Le poesie all’epoca delle interviste erano quasi tutte inedite, e sempre a Simongini, l’artista aveva dichiarato maliziosamente e surrealisticamente in un’altra intervista: “ci sono persino delle false poesie in giro”. Di questo sottile umorismo, e dell’uso frequente che de Chirico ne faceva, Simongini aveva colto tutto il significato, ma anche la sua debolezza, poiché scrive il critico: “i giornali hanno sempre riferito le sue battute, i suoi paradossi, i suoi giudizi senza fare cenno al tono, al momento, al significato di certe parole…”. “De Chirico pretende di scherzare – aveva detto la moglie Isabella – in un paese dove tutto è preso sul serio, e grottescamente deformato, l’ironia e la leggerezza non esistono…”.
Franco Simongini, dunque, certamente è stato l’unico giornalista a porsi di fronte a un maestro della statura di de Chirico in modi amichevoli e gentili, dotato naturalmente di qualità psicologiche tali da inquadrare al meglio un grosso personaggio pubblico sempre sulle difensive, e condurlo gradualmente ad accettare le conversazioni-interviste nel modo che ho più sopra indicato, ovvero stabilendo apertamente e preventivamente con l’artista i modi e i tempi del colloquio. Su queste premesse, quindi, vien fuori dagli incontri con de Chirico, anche nei sei filmati eseguiti per la RAI negli anni Settanta (memorabile a mio avviso quello del 1973, mentre il maestro dipinge Il sole sul cavalletto), una delle più sincere testimonianze della personalità del nostro più grande artista del Novecento, e in sintesi dalle stesse parole di Franco Simongini in un articolo su “La Fiera Letteraria” del 25 agosto 1974, dal titolo Romantico gentile e stravagante per necessità: “Uomo aristocratico, gentile, gran signore nei modi, nelle forme, De Chirico non vuol deludere nessuno, vuole essere gentile perché è gentile per educazione, e non potendo evitare le seccature, gli scocciatori, gli incontri mondani, l’unico mezzo che possiede per difendere la sua personale libertà, il suo intimo è l’ironia, lo scherzo, la folgorazione assurda e paradossale, la stravaganza e via discorrendo, ma al fondo invece è un uomo romantico, idealista e l’uomo de Chirico si scopre (oltre che nei quadri, che sono però di non facile lettura psicologica) nelle poesie, nei versi che quasi quotidianamente scrive e commenta, o a riposo delle sue fatiche pittoriche…”. Ed è proprio attraverso queste poesie che Simongini gli ha domandato di leggere, che de Chirico ci appare in tutta la sua umanità.
1) Questa è solo una delle numerose poesie dedicate da de Chirico a Simongini, alcune delle quali sono state pubblicate sul quotidiano “Il Tempo” (21 marzo 1976), lette nella trasmissione televisiva Le poesie inedite di Giorgio de Chirico dello stesso Simongini andata in onda il 10 luglio 1976 e poi edite anche nella raccolta Giorgio de Chirico. Poesie-Poèmes, curata da Carmine Siniscalco, con una testimonianza di Edita Broglio e una nota al testo di Maurizio Fagiolo e pubblicata a Roma nel 1980 nella collana “SEGNI E (DI)SEGNI”.
Roma, 10 gennaio 2006 Mario Ursino